La canzone «Malafemmena» fu scritta da Totò nel 1951, quando persistevano ancora gli ultimi strascichi della guerra con la tragedia di migliaia di reduci che, ritornati da una lunga prigionia, non si riconoscevano più in quei valori che avevano lasciato quando erano partiti. Per intenderci, il clima che si respirava a Napoli era ancora quello di «Munastero ‘e Santa Chiara» e «Tammurriata nera». L’artista napoletano scrisse le parole di «Malafemmena» di getto sul retro di un pacchetto di Turmarc bianche durante una pausa della lavorazione di «Totò terzo uomo», prendendo spunto da una sua sofferta relazione amorosa con Silvana Pampanini, procace attrice che aveva respinto l’attore, per una sostanziosa differenza d’età. Esulando dalla vicenda umana che l’ha generata, questa canzone ha avuto uno strepitoso successo perché si fa interprete della necessità di ripristino di quei valori che rappresentano la ricchezza morale del popolo: c’è un grande desiderio, infatti, di ritorno alla moralità, ad una normalità etica. «Malafemmena» diviene, quindi, un inno veemente contro la donna infedele (anche se la Pampanini non aveva mai tradito il principe!), lagnoso sfogo di un innamorato deluso, che se napoletano, è ancora più deluso. Difatti, una chiave di lettura complementare della canzone è quella che vede Totò incarnare appieno l’uomo neapolitanus, il quale mal si adatta ad essere rifiutato ritenendo il rifiuto un’offesa al suo orgoglio. La conseguenza di tale situazione è una rabbiosa reazione. Più che il vaniloquio si sfiora la dissacrazione: «Ma Dio nun t ‘o perdona chello c’ai fatto a mme». Orgoglio tutto partenopeo che non cerca giustificazioni, preso com’è nella sua determinazione: è sempre l’uomo che decide «comme t’avesse acciso». Dunque, è l’uomo che tira le redini del castigo. Non esiste, di conseguenza, neanche una parvenza di perdono per il comportamento della malafemmena che potrà pure avere le sue ragioni, ma non vengono prese assolutamente in considerazione.