«Nun me scetà», canzone del 1930, autori Ernesto Murolo e Ernesto Tagliaferri: atmosfera notturna, mare intasato, luna in prima fila, entra in scena un patito sfegatato delle canzoni Quanta varche ‘e marenare ca se vedono stasera… Cantame oi marenà tutt”e ccanzone! N’ora famme durmi sott’a sta luna! Famme sunnà che ancora me vò bene. Famme nsuonno murì Nun me scetà». Si consideri il superattivismo del protagonista che nel volgere di una notte vuole che gli siano cantate tutte le canzoni. Si percepisce anche l’esortazione al marinaio di soddisfare il fabbisogno canoro del richiedente. Non sappiamo a che costo, visto che é stato chiesto al marinaio di cantare finché le forze lo sorreggono, tutta Ia notte, salvo un’ora che il protagonista chiede per dormire: «N’ora famme addurmi sotto a sta luna». E se il tempo è nuvolo, se c’é una tempesta in agguato o c’é una eclissi? Ipotesi, quest’ultima, quanto mai azzardata ma non escludibile. Questo meritato riposo ridotto ad un’ora sola, invocata anche con l’esortazione rivolta al «marenaro» cantatore, probabilmente spossato anche Iui da tanto cantare: infatti il «nun me scetà» può essere inteso come un invito rivolto al «marenaro» di starsi zitto per un’ora e riposarsi. Intanto, si immagini la povera derelitta, cui allude il richiedente: se é sveglia e se é nei dintorni, sarå anche lei vittima di questa petulante nottata canora. La conclusione di questo melodramma é l’invocazione a una morte incosciente («famme n’suonno murì, nun mme scetà): infatti l’impegno estenuante di sorbirsi per ore e ore tutto il repertorio lo riduce a invocare come una liberazione la morte nel sonno non avendo, stremato com’é, la forza di morire da sveglio.