Ebbe corso a Napoli, negli anni dell’immediato dopoguerra, una teoria pseudo-scientifica che attribuiva il carattere allegro dei Napoletani all’emanazioni radioattive della pietra di tufo, roccia con la quale erano costruite le case. Teoria a parte, la musica e le canzoni natalizie made in Naples non sono sempre allegre. Inoltre, la musica natalizia, a causa delle dominazioni, visse a Napoli una vita precaria fino al Rinascimento. Ad esempio, gli spagnoli inserirono nella cultura locale il gusto del macabro, formando un ibrido nel quale erano rappresentati sia il ridondante gusto del funereo che la spontanea allegria. Convissero così in un forzato matrimonio la disperazione del popolo e la gioia incontenibile del lieto evento della nascita del Cristo. La musica sacra del Natale esprime la sua originalità lontana dalla contemporanea musica austera luterana e dalla cultura raffinata della musica trovadorica francese.
Malgrado la vicinanza del Papato, il canto gregoriano non era mai riuscito ad affermarsi al di fuori dei chiostri, delle chiese e dei sagrati. Una vera rivoluzione si avrà proprio con un napoletano, Carlo Gesualdo, principe di Venosa, più noto per aver ucciso la moglie Maria d’Avalos e il suo amante Fabrizio Carafa, sorpresi mentre giacevano insieme, che non per i suoi meriti musicali. La maggior gloria di questo compositore è, infatti, di aver prodotto una musica di afflato europeo e, malgrado il tono aristocratico, di matrice popolare, che come tale si esprimeva con suonatori e cantanti dilettanti. Dovendo soddisfare il gusto di un pubblico di bocca buona, le melodie si svilupperanno con doti di orecchiabilità e di facilità di linguaggio, che col tempo diventeranno prodromi di quei fenomeni canori che saranno l’opera buffa e la canzone napoletana. Coerente con queste tendenze, appare l’opera di Natale: «La cantata dei pastori» di Andrea Perrucci che mischia il sacro con il profano, inserendo nella sua trama personaggi popolari che interpretano i valori della cultura contemporanea, al contrario della cantata sacra protestante che si basa sul dialogo tra la voce recitante e uno strumento musicale. Questa fusione tra il canto popolare e la musica sacra raggiunge il suo acme nel definire personaggi che fanno da arredo alla rappresentazione della pseudo-sceneggiata. Abbiamo personaggi rimasti famosi per la loro caratterizzazione: Benito, zi’ Bacco n’coppa a votta, di chiara ascendenza dionisiaca, ed altri.
A Napoli la celebrazione del Natale non é percepita come l’esaltazione di un evento biblico ma come l’occasione e l’assoluzione morale per una colossale abbuffata. La musica, in questo caso, non è che una variabile trascurabile. Esemplarmente la canzone «Lacreme napulitane» (di Bovio-Buongiovanni) è ambientata alla vigilia del Natale, dove il protagonista emigrante fa tristi considerazioni sulla sua sorte, parafrasando L’uomo che ride di Hugo il cui protagonista annuncia al parlamento: «Signori, l’umanità soffre».
La festa del Natale, però, – e qui subentra l’eterna contraddizione del popolo napoletano – raramente nelle canzoni viene descritta come festa sontuosa poiché, cadendo in pieno inverno, è povera di cibarie che ne limitano se non la quantità, la varietà, essendo la natura in letargo invernale. Per quanto detto, vale il proverbio: «Natale è tutt scorza e Pasca tutta mullica». A tal proposito, un’altra citazione sul tempo natalizio si trova nel «’O cunto e Mariarosa»: «Friddo ‘a matina che spaccava l’ogne». Simbolica per la sua frugalità» è inoltre, la filastrocca: «Mo vene Natale/ E nun tango denaro / Me fumo una Pippa / E me vaco a cucca». Nessun evento storico è legato così intimamente ad uno strumento musicale quanto il Natale alla zampogna, usata dai pastori che, nel periodo natalizio, solevano girare per le case suonandola appunto davanti ad un altare improwisato. Questo strumento, già conosciuto dai romani col nome di «tibia utricolarus», ebbe grande fortuna nel Medioevo per la sua alta sonorità. Nel mondo della zampogna fa testo la canzone del 1917 (ma pubblicata nel 1924) «’O zampugnaro ‘nnammurato» di Armando Gill. Si prende spunto da un episodio veramente accaduto che vede come protagonista uno zampognaro, giovane e povero, che abbandona la fidanzata Filomena poiché si invaghisce di una bella e ricca signora conosciuta durante una novena. Dopo un idillio iniziale, il pastorello scoprirà che la signora è già maritata. Dello sfortunato amatore la storia ci tramanda le generalità: si chiamava Colosimo Capuano da San Sossio, in quel di Avellino. Insomma, il Natale nella canzone napoletana è un pretesto per poi parlare di pianti, dolori, malinconie e illusioni d’amore. Anche se il tema natalizio è poco presente nel panorama del pentagramma partenopeo – da ricordare anche la delicata «Natale» del poeta Clemente Parrilli e del musicista Evemero Nardella – una delle canzoni sul Natale più celebri nel mondo, fu scritta proprio da un napoletano nato a Marianella nel 1696: sant’Alfonso Maria de Liguori. Di nobile famiglia, prete, vescovo, studioso e autore di opere ascetiche, apologetiche, teologiche e morali, rimò canzonette spirituali e scrisse la famosissima «Tu scendi dalle stelle». E con la musica il santo aveva un feeling sublime se si pensa che a dodici anni già toccava il cembalo da maestro e fino alla sua morte (1787) suonò la spinetta. Se tutti conoscono «Tu scendi dalle stelle», pochi sanno che Sant’Alfonso de’Liguori dedicò al tema della nascita di Gesù anche una lunga pastorale in dialetto napoletano. La composizione si snoda sullo stesso motivo musicale della più celebre canzone alfonsiana e, secondo alcuni, possiede una liricità più sentita, ed è, dal punto di vista artistico, anche più valida. Il Nonemberg tradusse in tedesco il poemetto napoletano, rimanendo affascinato dalla pietà che «spira questo carme sul Natale scritto in dialetto napoletano». La Napoli del 700 era l’epicentro della vita musicale soprattutto grazie alla vivacitàå e ai colori dell’opera buffa.
Alfonso de’ Liguori, in quel tempo, si oppose al diffondersi tra il popolo delle ariette del Metastasio, affidandosi alla sua vena poetica. Creò versi di facile fruizione per alimentare la devozione. Da qui, dunque: l’idea di scrivere canzonette sacre, inni «sempliciotti» per far proseliti. Così nacque la pastorale «Quanno nascette Ninno a Bettalemme», composta molto dopo «Tu scendi dalle stelle», stampata per la prima volta nel 1816.