La civiltà moderna pensa al Natale come all’occasione legittima per una grande abbuffata. L’abbuffone napoletano non è un a-pagliaccio o un a-vanitoso, ma piuttosto un individuo che aspetta tutto l’anno per potere soddisfare le proprie brame. Comunque la tavola di Natale è a base di pesce, la cui provenienza ci è ignota, essendo il pescatore napoletano aduso ad utilizzare la propria barca per le finalità più sconclusionate, ma soprattutto quale veicolo per i trasporti amorosi. Per l’ esemplarità di quanto detto, citiamo «Nuttata e sentimento» di Capolongo e Cassese che recita: «Luntano luntano po mare turchino/vulesse a te ‘nzino/ nu suonno sunnà». Siamo anni luce lontani dalla travagliata fatica di un onesto pescatore che lavora per rifomire le mense napoletane. Eluso il problema della provenienza del pesce e del pescatore napoletano impegnato in faccende amorose, abbiamo come carni solo il cappone che nato da un’ incubatura, viene dopo ad essere in-castrato. Sulla scia dei paesi del nord dove la festa viene accompagnata dai Cori, la cultura napoletana si accontenta di un semplice canto individuale che, guarda caso, afferisce a un canto individuale svolto a bordo di una barca che sostituisce alla qualità del suono la quantità: «Cantame ‘o marenà/ tutte ‘e canzone/ ora famme addurmì». Il cardine della gastronomia partenopea sta nel cenone della vigilia. Cenone che si può definire il pranzone che si fa nel salottone buono. In questa prima parte si fa il soutè e le vongole regnano sovrane. Possono essere brade e allora son dette veraci, se gradite sono quelle voraci. A rigor di logica, se alla vigilia c’è il cenone, a Natale ci dovrebbe essere il pranzone; ma non c’è. Insalata di rin-Forza Italia, condita con l’aceto medio, che per motivi politici è in-bandita. Contorno di gamberi che cercano una via di scampo. Sul vermicello molti prendono un granchio: per l’abbondanza di guarnizioni si ha il vermicello a gongolo. Seguono varie portate di pesce tra cui spicca il capitone, che se è di fiume è capitone di lungo corso. Nei paesi di montagna si serve la sacra trota. E’ di prammatica anche il polpo, quello però che vive nei fondali: il polpo basso. Speciale per i neonati è l’impoppata di cozze. Piatti accessori sono le frittelle di baccalà, da non tutti appetite per una forma di modesto ritegno, perché simile non mangia simile. Per servire tutta questa roba si ncorre a un cuoco diplomato all’aliceo. Come dolce si serve la pasta repubblicana, già reale. Passando al vino quello buono come il traffico a Napoli: imbottigliato. Tra questi primeggia il Fiano, il cosidetto piano-forte, ma col pesce è preferibile quello dei colli albani: sottoMarino. Vi sono poi dei vini modesti come il Pinot, diminutivo di Giuseppot. Infine, per gli «abbuffoni» di calembour abbiamo anche la cucina specialistica per l’ortopedico: piatto forte la frattura all’italiana; la cucina del poeta servita con carme in umido; il formaggio dei muratori: il Cemental; la cucina grassa: il tiro a sugna.
Bisogna poi ricordarsi, prima di mettersi a tavola, di spegnere il fuoco del peperoncino e gettare acqua sul cuoco.